Forme e trasformazioni della relazione: uomo, natura, cosmo. Prospettive psicologiche e psicoterapeutiche, filosofiche e storico-artistiche” è il tema della rassegna internazionale IPAP OPEN HOUSE 2024, promossa annualmente dall’dall’APAP Associazione per lo studio della Psicologia Analitica e della Psicoterapia a orientamento junghiano, attraverso il suo istituto, IPAP Istituto di Psicologia Analitica e Psicoterapia, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia (Ric. D.M. 25-05-2016, N. 1063).
Chiesa di San Bernardino – Casa Olivetti, Ivrea (TO)
Il ciclo di iniziative si articolerà in cinque appuntamenti, tra settembre e novembre 2024, presso il Polo Formativo Universitario “Officina H Olivetti” di Ivrea (TO), nell’ambito dei quali diverse prospettive disciplinari – Psicologia, Filosofia, Storia delle religioni e Storia dell’arte – rifletteranno sul tema della “relazione” – le sue forme, le sue crisi e le sue trasformazioni nella contemporaneità, nel rapporto fra generi, nelle forme dell’affettività, nella nostra relazione con la natura e, con uno sguardo ancora più ampio, in ciò che lega l’uomo al cosmo e alla sua immaginazione su di esso, tra passato e presente.
La partecipazione è gratuita, fino a esaurimento dei posti disponibili previsti per ogni modulo; è richiesta l’iscrizione (info@ipap-jung.eu).
Sabato 29 settembre 2024, ore 9:00-18:00, Polo Formativo Universitario “Officina H Olivetti”, Ivrea (TO)
“I volti della tristezza e il talento dell’empatia”
Con Gian Piero Quaglino (IPAP, Ivrea / ARPA, Torino) e Alessandro Defilippi (IPAP, Ivrea / ARPA, Torino)
L’empatia non è solo quel sentimento di vicinanza e compassione che possiamo provare per le sofferenze degli altri. L’empatia è ben altro: è la capacità di immedesimarsi nelle vite degli altri, di saperle ascoltare, di saperle rispecchiare e, così, di aiutarne la comprensione. Una giornata di studio sull’empatia come capacità decisiva per ogni relazione di aiuto e di cura. Qualcuno dice che di empatia si parla fin troppo di questi tempi. Potrà anche essere vero. Ma chiunque vive di relazioni (cioè praticamente tutti) sa che di empatia non ce ne è mai abbastanza. E sa, soprattutto, quanto sia difficile offrirla e riceverla. Parliamo dunque di empatia come di un dono prezioso, ma soprattutto come di una dote particolare che ci avvicina alle “vite degli altri”. Cerchiamo tuttavia di intenderla nel modo giusto, perché effettivamente se non è vero che di empatia si parla troppo, non è altrettanto vero che se ne parli sempre nel modo appropriato. Al di là del pur apprezzabile risvolto “compassionevole” che esprime vicinanza e partecipazione nei confronti degli altri, l’empatia va anzitutto intesa come quella speciale capacità di immedesimarsi e di rispecchiarsi nelle vite degli altri, e al tempo stesso di restituire agli altri nuove prospettive di immedesimazione e rispecchiamento per sé. Prima che non un pensiero, dunque, l’empatia è un sentimento che occorre coltivare in tutti i suoi molteplici risvolti. Un sentimento di cui si può essere più o meno capaci, un saper “sentire” di cui si può essere più o meno dotati. È evidente che l’empatia è dunque, potremmo dire, una competenza indispensabile e uno strumento decisivo per tutte quelle professioni che pongono al centro il tema della relazione: della relazione di ascolto, di aiuto e di cura.
Sabato 9 novembre 2024, ore 9:30-13:00, Polo Formativo Universitario “Officina H Olivetti”, Ivrea (TO)
“L’amore della parola e la cura poetica della natura”
Con Fabio Merlini (IPAP, Ivrea / SUFFP Scuola Universitaria Federale per la Formazione Professionale, Lugano / Fondazione Eranos, Ascona)
Saluti istituzionali di Patrizia Dal Santo (Vicesindaca della Città di Ivrea)
Moderazione di Riccardo Bernardini (Segretario dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte)
La verità della poesia è la pietà per l’esistenza delle cose e della natura. È il venire in essere di un’altra logica del desiderio, poiché delle cose e della natura essa cerca sì la liberazione, ma in una direzione irriducibile a quella del loro inesauribile potenziamento. È un gesto d’amore. La poesia, in questo caso, risponde dunque a un appello rivoltole dalle cose stesse e dalla natura. Come se ci dicessero al linguaggio: estraniati dalla prassi intenzionata dai tuoi progetti e dai tuoi percorsi quotidiani e assicuraci, anche solo per un istante, ad un’altra visibilità. Quando riesce, il lavoro della versificazione, come forma che incontra una materia desiderosa di essere rinominata altrimenti, istituisce un processo emancipativo, poiché affranca gli oggetti dall’orizzonte della loro manipolabilità, così da riconsegnarli a se stessi. Per questa via, la poesia salva una verità inaudita delle cose; una verità che non è né quella della loro utilità strumentale né quella conseguita grazie alla penetrazione scientifica. Proprio come deve essere accaduto a quel lembo di arenile della Liguria, quando Giorgio Caproni scrisse: “Dove il mare ricama di trine sopra la rena / la sua labile trama”. Ma quando questo amore e questa pietà per la le cose e la natura viene meno? Attraverso la nozione di “natura”, le pagine dello Zibaldone ci offrono in più occasioni l’opportunità di riflettere su quell’apocalissi aggiornata in senso ecologico che definisce la crisi di civiltà in cui oggi riconosciamo il fallimento della nostra Storia. Leopardi “vede” ovviamente tutt’altro. Ma quando osserva come sia bensì nella natura, e non nella ragione, che dobbiamo riconoscere l’antagonista della barbarie, dice qualcosa che per noi risuona come un avvertimento e forse, anche, se siamo ancora in tempo, un farmaco. Certo, la sua “natura” corrisponde più a una fonte vitale, a una risorsa creativa, che non a un insieme di leggi con un proprio equilibrio permeabile all’operazionalità antropica, e quindi alla lunga drammaticamente sensibile ai suoi esiti sottrattivi e predatori. Tuttavia, nell’idea leopardiana della natura vi è qualcosa che ci interroga profondamente, proprio per il fatto di assegnare al dinamismo immaginifico che le è proprio una pregnanza ontologica che, come forza che opera nel mondo, trascende le fantasie individuali. Non c’è da una parte un universo immaginale, irreale e solo mentale, e dall’altra il piano dato, oggettivo della realtà. C’è un mondo che acquista sostanza, forma e parvenza grazie sia all’azione dell’immaginazione sia al lavoro “temperante” della ragione, quando quest’ultima non si pone in modo egemonico e supponente. In questo equilibrio, che Leopardi vede infrangersi nel corso del progredire della civiltà, risiede la virtù di un abitare in cui il mondo è sottratto al suo nulla. Fuori di questo equilibrio siamo invece nel regno di una razionalità e di una tecnica autoteliche, in cui tutto ciò che non si lascia trasformare in occasioni di profitto collassa nel non senso. Poco importa se questo collasso si manifesti poi come rottura dei legami sociali; come diffuso individualismo narcisista; come regno dell’utilità immediata; come distrazione bulimica; come libertà scatenata e irresponsabile.
In tale occasione, sarà presentato il volume di Károly Kerényi, I misteri dei Cabiri. Introduzione allo studio dei misteri antichi (Appendice: Castello di Tegna. Un parallelo archeologico con un santuario nella zona di Tebe), a cura di Natale Spineto, prefazione di Fabio Merlini e Riccardo Bernardini, Aragno Eranos Ascona, Ascona 2024, alla cui composizione ha competentemente contribuito un team di Allieve e Allievi IPAP: la Dr.ssa Roberta Cane, il Dr. Fabio Donna Bedino, la Dr.ssa Francesca Racca e la Dr.ssa Christina Marie Sanson.
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Sabato 9 novembre 2024, ore 14:30-18:30, Polo Formativo Universitario “Officina H Olivetti”, Ivrea (TO)
“Riflessioni sulle realtà affettive emergenti: uno sguardo alla luce della Psicologia Analitica”
Con Flavia D’Andreamatteo (IPAP, Ivrea / CIPA, Roma)
Le nuove forme dell’affettività, per quanto quasi nessuna sia stata completamente estranea ai nostri predecessori, si presentano a noi in modalità insolite. Una peculiarità che potrebbe invitarci ad osservare, alla luce della psicologia analitica, le nuove pratiche come espressioni dell’inconscio stesso, in relazione allo spirito del tempo. Il confronto con la gender revolution, che sta catalizzando molte riflessioni culturali, porta con sé un’idea di un mondo che sta transitando verso qualcos’altro che ancora non sappiamo immaginare. Ci troviamo di fronte ad un cambio di paradigma che interroga la pratica e la teoria della psicoterapia. Il principio freudiano: l’anatomia è il destino, si trasforma in: il corpo non è il destino, ma una tela da tessere. Il genere non è un derivato del sesso anatomico, ma si delinea come una costruzione dell’immaginario, una rappresentazione o una autorappresentazione simbolica. Siamo sicuri che esista un unico modello, psicologicamente maturo ed evoluto, del desiderio amoroso? Le attuali riflessioni degli studi di gender sono in un continuo vitale sviluppo. Si tratta di evoluzioni, escluse dalla conoscenza ufficiale, visto i soggetti minoritari di cui trattano, ma nello stesso tempo capaci di allearsi, forse in modo più diretto e innovativo di quanto faccia la moderna psicologia, con l’ambiguità e il disorientamento che sono l’essenza della sessualità odierna. Restituire alle forme dell’amore emergente l’appartenenza, non ad una diagnosi, ma all’autodeterminazione sia delle persone che della loro anima, ci avvicina al senso delle metamorfosi di cui siamo testimoni.
Lunedì 16 dicembre, ore 17:30-19:30, Casa della Psicologia, Via Mercantini, 5/a, Torino (TO)
“La muta del serpente. Il Buddhismo, la sofferenza inevitabile e la terapia”
Con Gianfranco Bonola (Università degli Studi Roma Tre, Roma)
Moderazione di Riccardo Bernardini (Segretario dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte)
Negli scritti più antichi che ci tramandano la predicazione del Buddha, il tono prevalente è quello dell’esposizione piana e razionale, quasi sempre accompagnato dall’esortazione a mettere in pratica gli insegnamenti, mentre soltanto qua e là balenano delle metafore illuminanti. Una delle più preziose ed efficaci è quella, citata nel titolo, della muta del serpente. Un fenomeno a tutti noto, ma non per questo meno mirabile, su cui si è soffermata la riflessione simbolica fin dall’ antichità. Risultava (e rimane) singolarmente eloquente il contrasto tra la vecchia pelle vuota e opaca che il serpente abbandona e la smagliante lucentezza delle nuove squame che ora lo rivestono. Non stupisce che anche in culture diverse questo abbia fatto pensare a un processo di guarigione o di autorigenerazione spirituale. A tale caratteristica di un animale per molti versi simbolico deve il suo titolo la prima parte del Suttanipāta [Raccolta dei discorsi], un’antica raccolta di discorsi del Buddha, inaugurata appunto dall’Uragasutta [Discorso del serpente], testo nel quale da un capo all’altro si ribadisce: “Come un serpente fa con la sua vecchia pelle consunta”. Questa metafora può essere un punto di partenza proficuo per affrontare in prospettiva buddhista il nodo costituito dall’esperienza della separazione e dell’abbandono, con il suo corredo dolente di rimpianto e nostalgia. Muovendo di qui si può mostrare come l’impianto stesso del buddhismo originario presenti dei tratti fondamentali che implicano una sua funzione “terapeutica”, a partire dal tema centrale della “sofferenza”, che il Buddha dichiara intrinseca e ineludibile nella vita degli esseri senzienti (umani e non). Si vedrà come nella pratica buddhista proprio le condizioni di separazione e allontanamento, che, se vissute come eventi cruciali nell’esistenza, sono fonte di aspra sofferenza, diventano oggetto di un’inversione dialettica totale e assumono la forma di strategie curative e liberatorie. Esse vengono perciò proposte come mezzi per il superamento della situazione di sofferenza, sia sul piano concreto che a livello metafisico. Soprattutto il motivo dell’“abbandonare”, del “lasciar andare”, “lasciar cadere”, come vedremo, risulta fondamentale per contrastare la dimensione negativa dell’“attaccamento” e risulta centrale nelle istruzioni fornite ai monaci e ai laici praticanti sia per la progressione spirituale, sia per la meditazione. Anche per queste non occasionali sintonie, si è oggi attenti in ambito psicologico a un uso terapeutico della meditazione, non senza riguardo all’impianto buddhista originario, valutato positivamente per la sua “laicità”. L’intervento, in stile seminariale, sarà incentrato sulla lettura e sull’analisi di testi buddhisti, introdotti dal relatore e discussi collegialmente.
A seguire, aperitivo natalizio offerto ai/alle partecipanti.
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Giovedì 19 dicembre, ore 10-12, Chiesa di San Bernardino, Ivrea (TO)
“La voce più famosa del mondo: San Bernardino da Siena (1380-1444) e la predicazione a Ivrea (1418?). Lezione e visita guidata alla Chiesa di San Bernardino – Casa Olivetti, Ivrea”
A cura di Barbara Mannucci (storica dell’arte, Ivrea) e Riccardo Bernardini (IPAP, Ivrea / Fondazione Eranos, Ascona / ARPA, Torino / Università di Torino), in collaborazione con l’Associazione Spille d’Oro Olivetti
Iscrizione obbligatoria, entro domenica 8 dicembre 2024
La Chiesa quattrocentesca di San Bernardino, di notevolissimo interesse religioso, storico e artistico, donata al FAI Fondo per l’Ambente Italiano dagli eredi Olivetti e da TIM nel 2023, è situata nell’area decentrata di Ivrea che ospita gli edifici industriali della Olivetti in Via Jervis, adiacente al complesso del Polo Formativo Universitario “Officina H Olivetti” e alle aule della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia IPAP. Acquistata nel 1910 da Camillo Olivetti, che la adibì a propria abitazione, e successivamente riqualificata insieme all’intera area circostante dal figlio Adriano, la chiesa custodisce un notevole tramezzo affrescato, dipinto tra il 1485 e il 1490 da Giovanni Martino Spanzotti (Casale Monferrato, 1455 ca.-Chivasso, ante 1528): vi troviamo rappresentata La vita e la passione di Cristo in venti scene, dominate dalla tavola centrale della Crocifissione e rivelatorie di un utilizzo della luce particolarmente raffinato sul piano tecnico e simbolico, come una straordinaria anticipazione del chiaroscuro del Caravaggio. La chiesa fu edificata tra il settembre 1455 e il gennaio 1457 assieme al convento destinato all’ordine francescano dei Frati Minori Osservanti, a seguito del passaggio a Ivrea di San Bernardino da Siena (Massa Marittima, 1380-L’Aquila, 1444), il quale, probabilmente nel 1418, “proseguendo indi il suo viaggio, penetrò nel Piemonte, ed in alcuni luoghi vi predicò. Dicesi anzi che nella città di Ivrea fosse sulle prime rigettato da quel popolo che non voleva neppure udirlo, benché predicasse sulle piazze e per le pubbliche vie; ma che finalmente riconosciuto per quell’uomo di Dio ch’egli era, dall’averlo veduto valicare sul suo mantello il fiume Dora, fosse ascoltato volentieri, e ad istanza dei cittadini ottenesse dai Magistrati un piccolo luogo fuori della città per i suoi Frati, dai quali fu dedicato a lui medesimo già annoverato nel catalogo de’ Santi” (P. Amadio Maria da Venezia, Vita di S. Bernardino da Siena, 1854, pp. 100 sg.). Oratore straordinario e coinvolgente, la sua predicazione fu così incisiva da essere sprone di forte rinnovamento per la Chiesa cattolica italiana e per tutto il movimento francescano. Nelle sue prediche, San Bernardino insisteva sulla devozione al Santissimo Nome di Gesù, che aveva tradotto in una immagine, il Cristogramma “JHS”, grazie a lui entrato nell’uso iconografico comune e divenuto così familiare a tutti i devoti: nell’arte e nell’architettura religiosa locale, in particolare, lo ritroviamo nel contesto di dipinti nel Canavese e in Valle d’Aosta attribuiti a Giacomino d’Ivrea, attivo tra il 1426 e il 1469 (sono attribuiti a quest’ultimo due affreschi, Adorazione dei Magi e San Francesco riceve le stigmate, conservati presso la Pieve di San Lorenzo a Settimo Vittone).
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